Nel 2024, la mostra Mozart ha reso omaggio a uno degli idoli della mia adolescenza, un tributo visivo che evocava il ricordo sfumato di un album ingiallito dal tempo, consumato dagli anni, con quell’effetto pergamena che dona fascino, autorevolezza e mistero. Volti segnati, profili sfocati, immagini che sembravano celare segreti, pronte a essere decifrate attraverso lo sguardo di chi osserva.
La fotografia è stata, per me, un’ossessione continua, una ricerca incessante di linee, geometrie, di una composizione che si muove tra ambiguità e rigore. Per anni ho cercato il modo di rappresentare Dražen Petrović, viaggiando lontano con il pensiero, immaginando scenari, rincorrendo interpretazioni, fino a scoprire che la chiave era più vicina di quanto avessi mai potuto immaginare.
Dražen Petrović non l’ho mai conosciuto, non l’ho mai compreso fino in fondo, non ho percepito la sua vita né potrò mai afferrare il significato della sua tragica fine. Il mio omaggio non voleva spiegare, ma soltanto sfiorare la sua essenza, evocare un pensiero su di lui, con lo sguardo di un ammiratore e il cuore di chi è stato ispirato dalla sua arte sul parquet.
Dražen Petrović era il gesto di una donna che si allunga per prendere una palla su un muro simile a un pianoforte, che scala un muro, che offre un assist, di fronte al mare, davanti al cielo. Memoria labile, destinata a dissolversi per chi non lo cerca, per chi non ha mai visto la sua magia su un campo da basket.
Le immagini di Mozart si componevano in armonie visive, in movimenti e danze che richiamavano la pallacanestro, dispiegandosi in scenari insoliti, lontani dai parquet illuminati. Stimolavano la percezione, invitavano l’osservatore a immergersi nel ritmo del gioco, nel dettaglio di un gesto, nell’eco di un talento interrotto dal destino.
Le fotografie raccontavano senza svelare, mostravano senza dichiarare, lasciavano che lo spettatore fosse testimone di un’assenza resa presenza attraverso il movimento. Insoliti protagonisti riproducevano le iconiche posture del basket in spazi inattesi, colti di spalle o di profilo, come se fossero osservati dalle tribune di un’arena immaginaria.
In 2024, the exhibition Mozart paid tribute to one of my adolescent idols — a visual homage shaped like a faded album worn by time, its parchment tones evoking mystery and memory. For years I searched for a way to portray Dražen Petrović, imagining distant scenes and interpretations, until I realized that the key was far closer than expected.
My intention was not to explain him, but to touch his essence — the echo of a gesture, the trace of his presence on the court. In Mozart, unconventional figures reenact iconic basketball postures in unexpected settings, as if seen from the stands of an imaginary arena. The images form visual harmonies and movements that evoke the rhythm of the game, inviting the viewer to sense the absence made present — the lingering brilliance of a talent interrupted by fate.